‘Gli invisibili’ – Storia di un (mio) racconto

Quando la scrittura (mi) “chiama” a gran voce io devo, per forza di cose e senza ragion vedute di sorta, risponderle con altrettanto entusiasmo. Quest’oggi, però, contrariamente al mio iniziale proposito di riprendere a “postare” verso la fine del mese, vorrei farlo attraverso la condivisione di un mio scritto di qualche mese fa (conscia di poter fare sempre meglio): nello specifico, un racconto nel quale ho cercato di mostrare lo spaccato di una società nella quale spesso errano “dei personaggi dalla scarsa utilità sociale”, o meglio degli individui che, come da titolo (preso in prestito da un film il cui protagonista è R. Gere!), possono considerarsi a tutti gli effetti degli “invisibili”, poiché esclusi da qualsiasi realtà sociale.

In effetti, se in questo periodo particolare di quarantena (con oggi, ‘sono in gabbia’ da sei giorni!) si parla di “città invisibili” – parafrasando uno dei maggiori successi dello scrittore Italo Calvino – e del “virus invisibile” è pur vero che, dall’altro lato, in questi ultimi giorni nei tg si è anche parlato di un’altra categoria di individui che sicuramente non se la passano meglio di noi e di cui scoprirete “l’identità” leggendo il racconto sottostante. Un racconto peraltro ispirato alla copertina di un famoso album concepito dai miei amatissimi Genesis nel 1973: Il meraviglioso “Selling England By The Pound” (di cui ho parlato abbondantemente qui e qui).

Ammirando la suddetta copertina, in effetti, ho “dipinto” nella mia mente una data situazione che ho poi “trasposto su carta” e che adesso ho deciso di apporre qui. Come al solito, il finale di questa storia è un finale aperto (con annesse “malinconie varie”), ma che volete farci… Credo proprio che la mia costante ricerca “di quel qualcosa” che posso, almeno parzialmente, conoscere soltanto io, non mi abbandonerà mai… Detto ciò, vi auguro buona lettura!

(Ps: Il seguente scritto era, in realtà, molto più lungo di così, ma per “esigenze concorsuali” ho dovuto abbreviarlo fino ad un massimo di 7.777 caratteri – anche se qui sono un po’ di più, a causa di una mia successiva modifica -… Chissà, magari un bel giorno ne farò una versione ancora migliore)!

 


 

In quel grigio mattino di fine dicembre, Michael Turner dormiva indisturbato su quella panchina come un perfetto uomo di strada. La famosa panchina di Mahnattan Street che troneggiava a Central Park, a pochi passi dall’Upper West & East Side. Sotto di essa si potevano ancora scorgere gli avanzi di cibo del giorno prima riposti all’interno di una bustina malamente accartocciata, con accanto una bottiglietta d’acqua ormai completamente vuota.

Esatto, quell’uomo risiedeva proprio lì, immerso nell’intimità e nella quieta atmosfera di quella natura che non riusciva però a salvaguardarlo da occhiate alquanto indiscrete. Alcune di queste erano curiose, altre ricolme di disprezzo, altre ancora di amara pietà. Eppure Michael, un senzatetto molto conosciuto nel quartiere di Manhattan, non sembrava affatto curarsene. Egli era profondamente diverso dagli altri “suoi simili”, tanto che la gente giurò di non averlo mai visto con il broncio. Ci si poteva tranquillamente arrischiare a chiamarlo “Mr. Sorriso”, ed effettivamente così lo definivano molti bambini del posto.

Ebbene, anch’io lo vidi; anzi no, lo studiai. Lo studiai con estrema attenzione, come fosse una perfetta cavia da laboratorio. In effetti, nei tratti somatici del suo volto notai, benché non la mostrasse così palesemente, una sofferenza alquanto profonda; inoltre, dal suo tono di voce percepii un vago senso di disprezzo nei confronti di quella vita che lo dipingeva come un derelitto, un dimenticato, un diverso.

Insomma, conobbi intimamente i pensieri di Michael e fu così che, d’un tratto, capii. Capii la gente, capii il mondo e le sue stranezze ma soprattutto, capii la profonda quanto paradossale dissomiglianza che alberga nel cuore degli uomini, omologati superficialmente dal comune aspetto fisico e altresì catalogati in base al criterio tassonomico che li identifica da secoli con il nome scientifico di Homo Sapiens. Una classe di appartenenza comune, eppure estremamente variegata negli usi e nei costumi, nelle idee e negli egoistici canoni evoluzionistici del pensiero.

Un bel giorno, Michael mi disse: «Tutti apparteniamo biologicamente alla stessa specie, gli uomini, eppure siamo profondamente differenti nella percezione dei sentimenti e delle emozioni, se non per anomalie sociali che coinvolgono, nella fattispecie, noi senzatetto. In  questo caso, tutti sono d’accordo nell’affermare che i “clochard” sono dei poveri disgraziati, dei maledetti furfanti. Il pregiudizio è ormai radicato nel cuore dell’uomo. Insomma, ti sei mai fermato a riflettere anche solo per un momento sulle opinioni che riguardano noi poveri senzatetto?»

Di fronte alla mia non risposta, egli sorrise amaramente.

«Immaginavo. Gente come noi non può certo contribuire al benessere del paese, anzi. Noi siamo e resteremo per sempre dei diversi, con l’unica differenza che tale diversità non rappresenta un pregio per noi, bensì una condanna. È strano pensare alla diversità come un ostacolo, non è così? Ma il nostro è un ecosistema isolato. Silenzioso, eppure visibile, se gli si dà anche solo un minimo di attenzione.»

Non risposi. Per un attimo, scrutai i suoi occhi neri come la notte rimanendo, nel contempo, in silente contemplazione dello scenario che si prospettava giornalmente alla sua vista. Moltissime specie di piante, di cui alcune similari a livello di forma. Un lago artificiale popolato da altrettante specie di animali differenti, ma con un obiettivo comune: lottare per la loro sopravvivenza. Poi… poi guardai loro. Gli uomini. Me stesso. E mi accorsi che Michael aveva ragione. Avevo capito esattamente cosa intendesse dire.

In quel contesto, essere diversi rappresentava una minaccia, un seccatura di cui sbarazzarsi. Non una ricchezza, come invece poteva rappresentarla da un punto di vista naturale. Mai come in quel momento, mi accorsi che dietro quella facciata macchiata da un falso perbenismo albergavano storie di uomini dalle caratteristiche fisiognomiche similari marchiati, però, da ideologie spaventosamente differenti ma da preconcetti sin troppo comuni.

L’osservazione di Michael fu talmente illuminante che per un momento quasi pensai di sparire per sempre dalla sua vista. Perché in fondo era vero: la maggioranza delle persone nutriva forti pregiudizi nei confronti degli emarginati. E chi non ne nutriva, poteva essere ugualmente condannato. Effettivamente, la cosa buffa era che in molti, pur serbando opinioni differenti dalla massa, agivano comunque allo stesso modo degli altri, perdendosi nel mostruoso baratro dell’indifferenza.

Passavano e si voltavano dall’altra parte. Cosa che quel giorno non avevo fatto io. Perché? Per quale motivo mi sono fermato e ho assistito quel senzatetto?

«Pochissime volte, qualcuno si lascia andare a uno slancio di generosità, proprio come hai fatto tu, amico mio.» mi aveva detto qualche settimana dopo, nei pressi del parco. Esatto. Dopo qualche tempo, eravamo diventati persino amici e mi presentai a lui con il nome di Arthur Orwell. In un attimo, ripensai al giorno del nostro primo incontro.

Sotto l’inesorabile scroscio della pioggia, all’inizio di novembre, Michael dormiva sopra quella celeberrima panchina ed io mi accinsi ad attraversare il parco, alquanto seccato da quel temporale inatteso. Non avevo l’ombrello con me. Eppure, stupidamente non pensai di correre. Fu allora che lo vidi. Rannicchiato come un bambino che ha paura del buio o peggio, del mondo. Ma di certo non della pioggia. Senza un perché, mi avvicinai e scuotendolo per le spalle, esclamai:

«Signore si svegli, la prego! Sta piovendo a dirotto!»

L’uomo aprì gli occhi a malapena. Quei suoi occhi, intrisi di una profonda tristezza, contrastavano con l’espressione cordiale e amichevole mostratami dal suo sorriso. Michael non si mosse.

«Avanti, venga con me.»

Lo trascinai letteralmente a forza e ci avviammo in un fast-food. Eravamo completamente fradici.

«Non si preoccupi, offro io.» gli dissi, prendendo la mia solita ordinazione e aspettandomi che si sedesse.

«Mi scusi, ma perché mi ha portato in questo posto? Nessuno le ha detto di farlo.” replicò lui, con disarmante tranquillità.

Per un momento, pensai davvero di sbatterlo fuori a calci e di abbandonarlo di nuovo al suo destino. Ma qualcosa mi fermò.

«Avanti, non faccia complimenti.» lo esortai, indicandogli un posto a sedere.

L’uomo scoppiò in una risata inespressiva che non lasciò intendere alcunché.

«Questo sarebbe il suo modo per dire “grazie”?» ribattei, decisamente confuso.

Per tutta risposta, mi porse la mano.

«Mi chiamo Micheal Turner. E lei…»

«Non ha alcuna importanza.» replicai, ricambiando la sua stretta di mano. «Da quest’oggi, mi consideri un suo amico.»

L’uomo trangugiò metà del panino che gli avevo offerto. Pareva avesse fretta di andarsene via.

«Lei? Un amico?» domandò poi, con aria confusa. «E sentiamo, per quale motivo dovrebbe essere mio amico?»

Vagamente infastidito dal suo atteggiamento, gli risposi con un’altra domanda.

«Lei, invece… perché non mi spiega che cosa ci faceva su quella panchina immerso nella pioggia battente?»

«Sono un senzatetto.» rispose, senza mezzi termini. «Cosa c’è, non si vede?»

Rimasi con lui in quel fast-food e fu così che, durante quella fredda mattinata, mi raccontò la sua storia. Una storia triste ma dai tratti decisamente comuni a quelli di molti individui che, pur conducendo una vita differente e magari più agiata della sua, ne hanno condiviso sentimenti ed emozioni che ormai gli apparivano, però, del tutto estranee. Anzi, forse morte e sepolte.

Alla fine, Michael sembra essersi arreso alla sua sorte. Da poco più di due settimane, è letteralmente sparito. Dove si troverà in questo momento? Credevo che la risposta fosse banalmente semplice. Starà dormendo su quella panchina, mi dicevo, nella famosa panchina di Manatthan Street. Mi sbagliavo. Ad ogni modo, non smetterò mai di cercarlo. Di cercarlo negli sguardi persi della gente, nei pressi di quel parco. Chissà che non sia proprio questo lo scopo ultimo della mia esistenza.

Pubblicato da Eleonora

Sono una ragazza curiosa dalle molte passioni: amo scrivere, leggere (ovviamente), disegnare fumetti, ascoltare musica - specialmente appartenente al filone del rock progressivo - e ballare, soprattutto i Latino-Americani. Mi piacerebbe molto imparare a suonare il pianoforte, nonché trovare un partner ballerino con cui condividere la mia grande passione per la danza... Lo so, forse chiedo troppo!

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