Discipline — King Crimson ♫

 

 “Il gruppo in questione riusciva a bilanciare alla perfezione la semplicità con la complessità: quando la ritmica diventava più complessa, l’armonia andava nella direzione opposta. Oppure quando uno dei musicisti della band eseguiva una parte particolarmente intricata, un altro ne controbilanciava la complessità suonando qualcosa di più semplice.”

Gabriel Riccio

 

I King Crimson, ve lo confesso, non sono mai entrati nella cerchia dei miei gruppi musicali preferiti (tantomeno vi entreranno in futuro). Troppo spesso, la tanto popolare cacofonia di cui si avvalgono molte delle loro canzoni mi ha fatto desistere dal ripetere l’esperienza di un ascolto che a tratti risultava sin troppo forzato, se non addirittura innaturale. Per nulla spontaneo, insomma. Le sonorità di cui si avvalgono i KC delle volte risultano sporche, brutali e per nulla “perfette” (e sì, la cosa è voluta). Non sono affatto canalizzabili, per così dire, men che meno riconducibili a qualcheduna delle tante band straniere (e non) che nel corso degli anni ho avuto il grande privilegio di ascoltare. I KC, comunque sia, non hanno mai avuto la benché minima intenzione di amalgamarsi agli altri. Sono sempre andati per la loro (tortuosissima!) strada. Ma d’altronde, quando si ha la fortuna di avere per le mani un geniaccio come Robert Fripp, ci si può forse aspettare qualcos’altro?

Io direi di no. Perché nessuno riuscirebbe a mettere in riga un tipo tanto stravagante come lui. Nessuno può. Come nessuno, di fatto, avrebbe per esempio il diritto di dirci come e quando dovremmo studiare. Effettivamente, fino a pochi minuti fa stavo proprio studiando. Preferisco non dirvi quale materia, però. Magari lo farò in un prossimo futuro, chi può dirlo. O magari no. Adesso, tutto quello che vorrei fare sarebbe tentare di sbrogliare la caotica matassa di terribili nozioni e inutili pensieri che negli ultimi giorni, come sin dalle primissime settimane di gennaio, si è fatta strada dentro il mio povero cervello. E mi piacerebbe tanto farlo a modo mio, chiamando in causa uno degli album più musicalmente complicati mai partoriti dalla mente di Fripp e compagni.

[Disclaimer: inutile sottolineare che, se per caso cercate una recensione prettamente tecnica dell’album, su internet ce ne sono a bizzeffe, e di bellissime! Qua, più che altro, se ne discuterà in un modo un po’ più strano, se vogliamo. E tutto perché ci sono di mezzo io, ovvio. Io e miei folli deliri; io e il mio studio matto e disperatissimo, che al solito mi accompagna in una lenta, ma spero inesorabile, ascesa verso le stelle!].

Al netto di tutto, posso già immaginare come potrebbe uscirsene una qualsiasi persona se in questo momento mi vedesse scrivere, anziché scribacchiare cose stranissime sul mio fidato quadernaccio in vista della prossima “sfida”.

Disciplina, ragazzi! Tutto quello che vi serve è un po’ di disciplina!

Insomma, chi non se l’è mai sentito dire? E no, non mi riferisco certo ai nostri poveri insegnanti (o almeno non solo), che ancora oggi sono costretti a fare i conti con le nostre imberbi e contorte menti per cercare di capirci almeno un po’, o perlomeno tentare di comunicare con noi. Certo, nel mio caso sarebbe più corretto parlare al passato, dato che l’adolescenza l’ho ormai superata da un po’. In ogni caso, al secondo anno di università sono comunque stata rimproverata per lo scarsissimo senso di ordine testimoniato dal mio quadernino di laboratorio, indi per cui, be’… l’avanzare dell’età, checché se ne dica, non ci rende affatto più saggi. Delle volte ci rende persino più stupidi, per non dire superficiali e tremendamente banali. Ma questa, forse forse, è (ancora) un’altra storia.

La storia dei mitici KC, invece, è a dir poco particolare (perché sì, io posso pure non apprezzarli a dovere, ma sta di fatto che rimangono comunque dei musicisti con la M maiuscola!). Dopo ben sette anni di pausa dall’album precedente (Red), precisamente nel settembre del 1981, il gruppo decide di ritornare alla ribalta sfornando un mitico disco, il cui titolo (come parte del suo contenuto) rispecchia tuttora la mia condizione di studentessa costantemente sul “chi va là” (sempre che si utilizzi un minimo di fantasia, ovvio!). Alla perenne ricerca di un rigore e di una disciplina davvero difficili da conquistare. La prima volta che ho ascoltato questo album mi sono sentita un po’ strana, a dire il vero. Ero incuriosita e, al tempo stesso, quasi intimorita da quell’altro genio di Andrew Belew, che non si risparmiava di blaterare cose all’apparenza “senza senso” nella sua Elephant Talk.

Talk. It’s only talk.

Parole. Sono solo parole. Così recita Belew all’inizio del brano, e io non posso nemmeno contare le volte in cui mi sono ritrovata a blaterare con me stessa per cercare di capire DOVE caspita dovessi andare a parare, su quale caspita di esame dovessi puntare il dito, nonché concentrare tutte le mie energie. Il testo del brano è ASSOLUTAMENTE geniale. Un coacervo di parole che crea immediata confusione nell’ascoltatore, un contrasto che di fatto pare ingestibile. L’ascoltatore (io!), poverino, non sa nemmeno da che parte “girarsi”, dove guardare. Dove puntare quel maledetto dito. Insomma, può forse nascere dal nulla quel confortante senso di ferrea disciplina nel bel mezzo di tutto questo marasma che imperversa nelle nostre povere menti? Niente nasce dal niente, mi risponderebbe un mio professore di Organica. Per quanto mi riguarda, siamo soltanto nella fase numero 1: quella delle parole (tante, troppe!), non certo dei fatti.

Tante voci nella testa, altrettante, maledette incertezze. Quelle incertezze che ci bloccano ancor prima di iniziare. La chitarra di Belew che nel frattempo continua a produrre quei suoni tanto strani, per certi versi somiglianti al barrito degli elefanti (d’altronde, il titolo della canzone parla da solo, no?). Nella mia testa regnano la confusione e il caos più assoluti; vi si animano le peggiori battaglie, vi si annidano pensieri autodistruttivi, sin troppo articolati e per nulla consolatori. Un insieme di domande senza risposta. Fior fior di imprecazioni. Di esclamazioni esagerate. Nella mia testa prendono vita silenziose ma pesanti diatribe, un’infinità di battibecchi, le più assurde contraddizioni prendono il sopravvento sulla ragione. Persino sulla volontà.

Too much talk (small talk). Troppe parole (e altrettanti chiacchiericci).

Troppe parole e pochi, pochissimi fatti. Per non dire nessuno.

Ma forse stiamo un po’ esagerando. E se invece bastasse mettersi là, seduti dietro la propria scrivania, il capo chino, e cominciare dal principio, con calma e senza fretta, anziché stare lì a dirci per la ventordicesima volta che “non ce la faremo mai”? Sì, forse sarebbe il caso. Ma non siamo ancora pronti, anche se… anche se gli interminabili fiumi/giri di parole, da che mondo è mondo, non hanno mai aiutato nessuno a superare quei malefici esami!

Azione, ragazzi! Azione e disciplina. Questo è tutto quello che ci serv(irebb)e.

Se però ci focalizzassimo ben bene sul testo della canzone in questione (e sì, noi lo facciamo!), possiamo perlomeno notare una piccola, ma comunque ordinata, sfumatura che potrebbe cominciare a farci vedere la luce in fondo al tunnel. Nella prima strofa, quasi tutte le parole pronunciate da Belew cominciano con la lettera A (Arguments, Agreements; Advice, Answers; Articulate Announcements¹). Ecco che poi, nella seconda strofa, tocca alla B (Babble, Burble, Banter; Bicker, Bicker, Bicker; Brouhaha, Balderdash, Ballyhoo²), e via discorrendo fino alla E – ultima strofa – (Expressions, Editorials; Explanations, Exclamations, Exaggerations¹″).

Per la lettera C: Comments, Cliches, Commentary, Controversy; Chatter, Chit-chat, Chit-Chat, Chit-chat; Conversation, Contradiction, Criticism³. Per la D: Dialog, Duologue, Diatribe; Dissention, Declamation; Double talk, Double talk.¹′

Da notare che per la lettera B alcune parole non hanno nessun senso, e questo molto spesso si riflette in quegli esami di cui non capisco assolutamente nulla (o quasi) ma che, in ogni caso, mi tocca cercare di sostenere in qualche modo. Sigh sob. Sniff sniff.

Okay, adesso basta con i chiacchiericci (inutili). Siamo ufficialmente entrati nella fase 2. Quella dell’accettazione. Il tutto è ancora piuttosto fumoso e indefinito, ma il moto ipnotico riprodotto all’inizio dalla chitarra elettrica del virtuosissimo Fripp trasporta l’ascoltatore (e quindi anche me!) in un mondo alternativo; in un mondo che magari, pezzo per pezzo, fotogramma per fotogramma (Frame By Frame, appunto), step by step, pagina per pagina, si ricomporrà dinanzi ai suoi stessi occhi nel momento più inaspettato. Per non annegare del tutto in quel pesante fiume di parole – di cui spesso siamo solo vittime – bisogna cominciare a muovere i primi passi verso un qualcosa di più concreto. Possiamo uscire dall’impasse? Il testo della canzone è abbastanza criptico. C’è ancora molto lavoro da fare, per districare quella stessa matassa di cui (pure) la copertina del disco, tanto esoterica quanto essenziale, si fa portavoce.

Il rumore di fondo è ancora troppo forte. E no, non sappiamo ancora bene in quale direzione (mi) risulti più comodo procedere. Finirà mai quest’assurda confusione? Nel loro primo disco (In The Court Of The Crimson King, 1969), i KC affermavano con forza: Confusion will be my epithap (“La confusione sarà il mio epitaffio”). E io, almeno per il momento, mi sento di sposare in toto la loro filosofia.

La nostra avventura non finisce qui. Abbiamo finalmente capito (meglio tardi che mai!) dove buttarci e incanalare tutte le nostre energie (finanche arginando, per quanto possibile, eventuali crisi isteriche – sì, possono capitare). I toni si fanno più distesi, l’iniziale disperazione comincia a lasciare il posto a un’apparente tranquillità. Il prossimo obiettivo è fissato, il nostro bersaglio ha i mesi, sigh! minuti contati.

La prossima materia, su cui abbiamo scelto di sbattere – più o meno scientemente – le nostre fragili testoline, dopo millemila fisime/viaggi mentali, non ci darà di certo vita facile. Ma a noi le cose facili non piacciono, vero? Scherzi a parte, non ci siamo ancora. Matte Kudasai, direbbero i giapponesi. Alias: Attendi un attimo. Sediamoci un momento, concediamoci qualche respiro profondo e… rilassiamoci. Prima di cominciare a sclerare, dobbiamo essere mentalmente predisposti all’assalto. Predisposti e più che pronti a ficcare il naso su quelle dispense che abbiamo scritto con tanta cura.

L’atmosfera particolarmente quieta della canzone ci consiglia caldamente di procedere con calma. Al ritmo di un bradipo, magari, ma comunque costante. Concedendoci, com’è ovvio, qualche piccola (o grande) pausa di tanto in tanto. Proprio come sto facendo io in questo frangente, tartassando con la punta delle dita la mia amatissima tastiera al fine di pubblicare il primo post di quest’anno.

Okay, ci risiamo. Era tutto troppo bello per essere vero. Ho appena cominciato a studia(cchia)re e già (ri)cominciano i problemi. Disciplina. Costanza e disciplina, mi ripeto, mentre mi accorgo di aver perso il ritmo per l’ennesima volta. D’altra parte, quando in me fa capolino l’assurda (e furtiva) voglia di scrivere (e questo succede proprio nei momenti più sbagliati, delle volte), non c’è proprio esame che tenga. Devo assecondare quell’impulso, oppure corro il serio, serissimo rischio di esplodere all’improvviso. Di esplodere proprio come Fripp e compagni. Ma comunque… a chi non è mai capitato di distrarsi un minimo durante la consueta sessione di studio? Nel mio caso, musica e scrittura vanno spesso a braccetto. Tutto questo ha un solo nome: non-disciplina. Indiscipline. La quarta, particolare e intrigante traccia che chiude il LATO A del disco.

Un insieme di suoni tanto dissonanti tra di loro quanto precisi e complessi, che a un certo punto si mescolano alla voce di Belew, che alla fine prorompe nello stesso identico urlo che delle volte mi ha raschiato la gola quando i miei poveri nervi, di cui la materia in questione non nutre alcuna compassione, hanno deciso di cedere. Sì, okay, forse non ho urlato proprio in quel modo, però confesso che in un paio di occasioni mi è successo di strappare (con ben poca grazia, s’intende) un paio di paginette tratte dalle dispense di un corso, come lanciarle dall’altra parte della stanza, in un moto di profonda frustrazione.

Certo è che l’affermazione di Belew (I repeat myself when under stress, alias “lo ripeto a me stesso quando sono sotto stress”) la trovo profetica. Quando sono sotto stress, cerco sempre di ripetermi che il tutto, alla fine, acquisterà un qualche senso. Persino le materie più ostiche. E che tutto finirà prima di quanto immagino, lasciandomi in eredità una bella dose di conoscenze. Delle conoscenze che magari scorderò presto, ma che hanno in qualche modo contribuito alla mia crescita personale. Allo sviluppo di una certa dose di disciplina.

Insomma, anche se i momenti di sconforto e di distrazione non mancano mai, sono comunque fiduciosa del fatto che questo processo di studio, alla fin fine, mi porterà dove voglio io. Flussi creativi (e privi di forma) a parte.

Come dice Belew: “No matter how closely I study it. No matter how I take it apart. No matter how I break it down, it remains consistant.” Ovvero: Non importa quanto da vicino io mi metta a studiare quella cosa, non importa come smonto un argomento pezzo per pezzo per cercare di capirci qualcosa. Non importa come la analizzo, quella cosa. Perché quella cosa rimane comunque lì, e non si smonta. La sua consistenza è bella solida.

E l’unico modo per entrarci dentro sul serio è combatterci ogni giorno. Con un pizzico di costanza, e quindi con disciplina. Fino a quando, magari inaspettatamente, non riusciremo a dire, come esclama Belew al termine del brano: I like it! (Mi piace!).

Il nostro viaggio prosegue sulle note di Thela Hun Ginjeet. Non ci avete capito un accidente, vero? In effetti il titolo della canzone è l’anagramma di heat in the jungle (che affronta la tematica della criminalità). Ecco, non vi nascondo che tante volte mi sembra di avere di fronte proprio degli anagrammi, quando studio (e ora come ora non è diverso). Perché mi capita di vedere delle cose talmente assurde che no, non mi sconvolgono più come una volta, ma riescono comunque a suscitarmi le domande più disparate. Della serie: mantenere i nervi saldi si fa sempre più difficile.

“I’m nervous as hell from this stuff”, dice Belew. Sono nervoso da morire per questa roba.

E come darmi torto? Questa giungla di contenuti stranissimi aspetta soltanto di essere compresa a dovere, e io so per certo che non posso comunque capire tutto. Ma per fortuna non siamo soli. Le parole di questa canzone altrettanto strana ci faranno compagnia ancora per un bel po’. Con annessi, stupefacenti assoli Frippiani. Sì, stiamo ancora lottando per la libertà. Ancorati ai vecchi schemi, ma pronti a romperli in caso di necessità.

Siamo quasi arrivati, o almeno si spera. La terra promessa potrebbe essere molto vicina. Più vicina di quanto crediamo. Bisogna pensare positivo, lasciarsi cullare da una melodia rilassante qual è The Sheltering Sky. Dopo tanto rumore, stiamo finalmente raggiungendo la pace interiore. Dopo tanti dubbi e altrettante incertezze, abbiamo forse trovato il nostro personalissimo equilibrio. Lo studio prosegue bene, forse meglio di quanto potessimo aspettarci all’inizio. Tutto comincia a prendere forma; ad acquisire persino un senso, magari. Forse non c’è più traccia di quel maledetto casino che quasi sempre si agita in noi quando è il momento di prendere una qualsiasi decisione. Dentro e fuori di noi, comincia ad aleggiare il profumo della speranza. Una speranza la cui essenza è sempre tanto, ma tanto dolce. Nessuna parola di troppo, questa volta. Anzi, nemmeno una.

E questo, miei prodi, significa solo una cosa. Significa che ce l’abbiamo fatta.

Siamo infatti arrivati al termine del nostro lungo viaggio. Abbiamo appena raggiunto la conditio sine qua non per superare il prossimo esame. E quindi? E quindi siamo pronti. Siamo pronti a spaccare di brutto, a guardare in faccia le difficoltà e ad affrontarle con serenità, con barbaro coraggio e altrettanta disciplina. Discipline. L’ultimo brano (anch’esso puramente strumentale) del disco. Un brano che ci induce a combattere per i nostri obiettivi (o ideali che dir si voglia) con stoica determinazione, fregiandoci dell’atteggiamento più zen che possiamo adottare.

Cos’avevamo detto all’inizio?

Disciplina, ragazzi! Tutto quello che vi serve è un po’ di disciplina!

Azione e disciplina. Questo è tutto quello che ci serve. E che ci servirà in futuro.

Perché senza disciplina, spiace dirlo, gli esami non si fanno. Nemmeno si possono tentare. E nessun obiettivo, in generale, può essere raggiunto. E in questo specifico brano, manco a dirlo, le sonorità si fanno ben più discrete (ma non per questo prive di spessore), perché negli esami ci vuole calma. 

Calma e sangue freddo, come direbbe qualcuno. E noi cercheremo, anche stavolta, di metterceli entrambi.

Cazzimma a parte, certo.

Note di traduzione da Elephant Talk (Traccia 1):

¹   Argomenti, Accordi; Consigli, Risposte; Annunci articolati;

²   Balbettio, Balbettio, Battuta; Litigio, Litigio, Litigio;

³ Commenti, Cliché, Commenti, Polemiche; Chiacchiere, Chiacchiere, Chiacchiere, Chiacchiere; Conversazione, Contraddizione, Critica;

¹′  Dialogo, Duologo, Diatriba; Dissenso, Declamazione; Doppio discorso, Doppio discorso;

¹″ Espressioni, Editoriali; Spiegazioni, Esclamazioni, Esagerazioni.

Pubblicato da Eleonora

Sono una ragazza curiosa dalle molte passioni: amo scrivere, leggere (ovviamente), disegnare fumetti, ascoltare musica - specialmente appartenente al filone del rock progressivo - e ballare, soprattutto i Latino-Americani. Mi piacerebbe molto imparare a suonare il pianoforte, nonché trovare un partner ballerino con cui condividere la mia grande passione per la danza... Lo so, forse chiedo troppo!

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