The Song Is Over?

«The song is over, It’s all behind me» […]

 

Esistono degli album che, una volta scoperti e ascoltati (ma non certo “vissuti”), finiscono per occupare uno dei tanti “scomparti” che popolano la complessa − e spesso contorta − mente di un essere umano qualunque, che anche solo nell’arco di un semplice minuto può esaltarsi a tal punto da sentirsi persino pronto a scalare le vette dell’Everest, per poi… per poi spegnersi subito dopo (ma no, non sto descrivendo me stessa, figuriamoci!). Who’s Next, almeno per quanto mi riguarda, è uno di quei tanti (troppi) lavori leggendari afferenti alla storia del rock che, per certi versi, avevo messo in un angolo.

Eh no, qui non stiamo certamente parlando della famigerata Baby (Jennifer Grey) di Dirty Dancing (1987), studentessa borghese diciassettenne che finirà per innamorarsi di John Castle, lo squattrinato insegnante di danza  (interpretato − peraltro magistralmente − da quel bonazzo di Patrick Swayze, *requiescat in pace*) che, verso la fine del film, pronuncerà la celebre battuta “Nessuno può mettere Baby in un angolo!“, tantomeno di Storia di Un Minuto (1972) dei PFM (per un breve momento, quel senso di euforia e di “spegnimento” [o magari si tratta di un mero stato di quiescenza?] di cui ho fatto cenno poco sopra e che si può sperimentare, appunto, nell’arco di un solo minuto mi ha fatto pensare a questo disco della Premiata – in fondo, siamo o non siamo italiani?). In questo caso specifico, come avrete ormai capito prima e dopo questi voli pindarici, stiamo appunto parlando di una delle band più rappresentative del rock’n roll inglese (assieme ai The Beatles, The Rolling Stones e i Led Zeppelin), e quindi… dei The Who. Che, tanto per parafrasare il talentuoso (e, purtroppo, non meno tormentato e sfortunato) Swayze, nessuno dovrebbe mettere in un angolo.

Monolite di cemento (Easington Colliery, Inghilterra) protagonista, assieme alla band, della copertina del disco

Nella giornata di ieri (o forse sarebbe più corretto dire alle sette di sera − eh sì, sono un gufo notturno, io!), durante la mia consueta passeggiata post-studio, ho voluto accontentare la mia voglia di tornare all’ascolto di Who’s Next, album concepito da Pete Townshend e compagni il 14 agosto del 1971. Soltanto nel pomeriggio di oggi, però, mi sono accorta che, delle 9 canzoni appartenenti a questa straordinaria pietra miliare, ne mancava una all’appello. La migliore del disco, tra l’altro (almeno a mio parere!). Sulle prime, mi ero lasciata semplicemente trasportare da una musica che mi aveva messo tanta adrenalina quanta (benefica?) malinconia addosso, ma poi, vagabondando su YouTube come la solita disperata (senza la mia dose giornaliera di musica corro il serio rischio di impazzire!), ho scoperto l’altarino. The Song Is Over, caspita! Ecco cosa mancava! Come forse immaginerete, ho dovuto correre immediatamente ai ripari, e… Dio, se è magnifico questo brano! No, non ricordavo proprio che lo stesso fosse così maledettamente ben costruito, così delicato, malinconico e raffinato nella sua maestosa potenza, che si esprime appieno tramite le doti indiscusse del geniale ed eclettico batterista Keith Moon (requiescat in pace pure lui…) e della vocalità del chitarrista Townshend (con Roger Daltrey ai cori!). Senza contare la dolce melodia di pianoforte imbastita da Nicky Hopkins. Lo stesso Townshend definì la canzone come “un misto di tristezza e malinconia, che però, a un certo punto, trova il suo culmine”. Un culmine che sfocia nella perfezione, oserei aggiungere.

Ma facciamo un passo indietro – come sempre, del resto. Who’s Next non è nient’altro che un disco nato dalla costola di Lifehouse, opera rock a tema fantascientifico partorita dal geniale e pretenzioso Townshend (misa tanto che ogni band che si rispetti può vantare “un Peter Gabriel”!), che però non fu approvata dai suoi compagni d’avventura. Naufragato un progetto di tale portata – forse, per certi versi, paragonabile al “folle” proposito che aveva Gabriel di creare un film inerente alla sua “creatura”, cioè il suo The Lamb Lies Down On Broadway  (1974) –, alla band non rimaneva altro che concepire un album dai canoni normali, ma squisitamente innovativi per l’epoca. Di normale, in effetti, c’è ben poco, perché in tutte le tracce si respirano, tecnica sopraffina a parte, freschezza e altrettanta originalità. Le canzoni che Townshend aveva scritto per LifeHouse (eccetto My Wife, composta dal bassista John Entwistle [1944 – 2002]) vennero perciò inserite in Who’s Next, che ottenne un clamoroso successo. Non per niente, la rivista Rolling Stone lo inserì al ventottesimo posto nella sua “graduatoria di merito”, nella quale figurano i migliori 500 album di tutti i tempi. A dispetto della forza, dell’energia e della genuina pazzia che spesso travalica quei confini che forse, se non si trattasse dei The Who, potremmo definire come “normali”, l’album è un manifesto sull’amore (se si escludono la prima e l’ultima canzone). Un amore gridato con tutta la potenza e la dolcezza di quattro ragazzotti che, già con Tommy (1969), avevano dato prova del loro talento.

A partire da destra: Roger Daltrey, Pete Tonwnshend, Keith Moon, John Entwistle

Il disco si apre con la grandiosa Baba O’Riley. Non appena ascoltai questa canzone, rimasi a dir poco impressionata dal suo inizio maestoso: un motivetto ciclico, ipnotico e coinvolgente (creato ad hoc tramite l’organo e il sintetizzatore di Townshend), che ci trasporta nell’immediato in un mondo quasi parallelo al nostro. Un mondo che non sembra appartenerci ma che, in un crescendo di emozioni e sensazioni espresse a pieno titolo da un Roger Daltrey che, dal punto di vista vocale, appare davvero nel pieno della sua forma, ci avvolge in un loop infinito, in una magica spirale di suoni in cui, verso il finale, figura persino il violino (Dave Arbus). Il titolo del brano fonde due nomi: il guru spirituale indiano Meher Baba e Terry Riley, compositore minimalista. La band è sempre stata molto attenta alle problematiche connesse al mondo giovanile (ci basti pensare anche alle canzoni beat The Kids Are Alright e My Generation – quest’ultima omonima al titolo dell’album del ’65), tant’è che nel brano ricorre più volte l’espressione teenage wasteland. La strofa più rappresentativa, malinconica e altrettanto significativa viene infatti scandita da Daltrey e Townshend: «[…] Don’t cry / Don’t raise your eye / It’s only teenage wasteland […]» – «Non piangere / Non alzare gli occhi / È solo desolazione giovanile.» Sarà vero? Be’, il protagonista del brano è un semplice ragazzotto di belle speranze a cui non è mai stato regalato nulla, che si è dovuto reinventare e che, non da ultimo, spera di vivere presto il suo lieto fine con Sally, la sua ragazza. Penso che sul finale la band si sia davvero divertita nel combinare l’uso degli strumenti con la velocità di esecuzione del brano, che infonde nell’ascoltatore la dannata voglia di fare qualsiasi cosa (alle volte, il potere della musica è davvero impressionante!). Tra l’altro, mi era già capitato di ascoltare l’inizio di Baba O’Riley qualche anno fa (ma non sapevo ancora chi fossero i The Who!), vedendo qualche spezzone della serie poliziesca americana CSI – New York, che utilizzò per anni il motivetto iniziale come tema (tutt’altro che desolante!).

La seconda traccia, Bargain, si presenta come una canzone d’amore a tutti gli effetti, malgrado nel testo non figuri direttamente il soggetto di queste strofe pregne di sentimento. In realtà, come spiegato da Townshend,  questo brano è anch’esso ispirato a Meher Baba e il vero protagonista della lirica sarebbe Dio. L’inizio è scandito da un brevissimo assolo di chitarra, destinato a sfociare nella potente perfomance vocale di Daltrey. Il momento più sublime della canzone si raggiunge al minuto 1’47”: «[…] I sit lookin’ round / I look at my face in the mirror / I know I’m worth nothing / Without you / And like one and one don’t make two / One and one make one / And I’m lookin’ for / That free ride to me / I’m lookin’ for you […]» –  «Sono seduto e mi sto guardando intorno / Mi guardo allo specchio / Non valgo niente senza te / E come uno più uno non fa due / Uno più uno fa uno / E io sto cercando quel giro di libertà / Sto cercando te.» Qui sentiamo un Townshend (eh sì, in quasi tutte le tracks c’è sempre l’alternanza Roger-Pete) privo di difese, un povero cucciolotto pronto a lasciarsi travolgere da un confortante abbraccio che possa rinvigorire il suo (e il nostro) spirito e, perché no, rafforzare la sua (nostra) autostima. D’altra parte, non è soltanto nei momenti più critici della vita che ci si dovrebbe ritrovare a dire: “Non sono niente senza di te” – condizione che, comunque, non è certo assoluta! Sul finale, l’esplosiva combinazione di chitarra e batteria si lascia infine dominare dal primo strumento, riprendendo a tutto tondo il motivo iniziale del brano.


Love Ain’t For Keeping è la traccia più breve e distensiva dell’album. Questa, assieme a My Wife, è quella “mi fa impazzire” di meno, ma è comunque interessante che, oltre alla tematica amorosa, si affronti quella inerente al potere della natura (questo potrebbe far pensare ad alcune composizioni di Wordsworth e Coleridge, i poeti “romantici” per eccellenza), come l’importanza di cogliere l’attimo; un attimo spesso fuggente ma rigenerante. La traccia si sviluppa su una base di chitarra acustica, con la voce di Daltrey che spicca su tutto il resto (batteria di Moon inclusa). My Wife, invece, è stata scritta dal bassista Entwistle a seguito di un diverbio con la moglie. La traccia è più coinvolgente rispetto alla precedente ed è cantata dallo stesso musicista, con l’ensemble di chitarra, basso, piano e batteria.

Veniamo ora al pezzo forte: The Song Is Over. È difficile descrivere a parole un simile capolavoro (che chiude il LATO A del disco). A dispetto del titolo (la traccia avrebbe dovuto chiudere Lifehouse), questa canzone la definirei eterna. L’introduzione al pianoforte viene poi accompagnata dalla voce malinconica di Daltrey, che infine sfocia nella potenza più assoluta, assieme all’effetto corroborante della batteria di Moon e dei sintetizzatori. «[…] When I walked in through the door / Thought it was me I was looking for / She was the first song I ever sang / But it stopped as soon as it began […]» – «Quando sono passato attraverso la porta / Pensavo stessi cercando me stesso / Lei è stata la prima canzone che ho cantato / Ma si è fermata ancora prima che iniziasse.» Questa sezione di testo, abbinata alla consueta melodia, l’ho sempre trovata molto evocativa. L’alternanza di voci corali, che si mescolano a quella principale, è di una bellezza unica. Nessuna nota fuori posto, un testo che sembra banale ma che, in realtà, racchiude anche alcune figure retoriche che designano un addio, una storia d’amore che ha purtroppo raggiunto il capolinea. Gli “spazi vuoti e aperti” (wide open spaces), “le montagne alte” (sky high mountains) e “il mare infinito” (the infinite sea) indicano la condizione di solitudine in cui riversa il protagonista della lirica in un momento come questo. Eppure, malgrado la sua “canzone” sia finita, il suo cuore, per quanto ferito e deluso, non smetterà di battere, fregiandosi dello stesso senso di eternità di cui gode la natura (o quasi). Della serie: molte “nostre canzoni” (e quindi rapporti più o meno importanti – sentimentali, lavorativi o anche di amicizia) possono concludersi per i più disparati motivi e lasciarci dentro un grande vuoto (e un grande dolore), ma, d’altra parte, simili esperienze possono condurci alla scoperta di un lato di sé che ci rifiutavamo di contemplare. Siamo più forti di quanto pensiamo, ma questo lo scopriamo soltanto nel momento “della prova”. Quando in qualche modo ci si sente perduti e senza prospettiva, ecco che entra in gioco il nostro “spirito di sopravvivenza”. Quante volte ci è capitato di pensare: “Se quella cosa succedesse a me, non sarei certo capace di affrontarla“, invece, poi… ci si ritrova faccia a faccia proprio con “quella cosa”?

La morale proposta dal brano non è nient’altro che questa. In qualche modo, seppur non nell’immediato, siamo costretti ad andare oltre (anche rimuginando millemila volte su un qualsiasi, spiacevole evento che ci ha lasciato l’amaro in bocca e che, inevitabilmente, ci ha segnato), a ritrovare quella forza interiore che è sempre stata dentro di noi e, non da ultimo, continuare a sognare che le cose belle possano ancora accadere. La nostra “canzone di punta” è appena finita? Facciamo un bel respiro e torniamo a premere play: sta per cominciarne un’altra.


La prossima traccia è Getting In Tune, che per certi versi si rifà alla precedente, ma include come tematica il potere che la musica infonde negli ascoltatori e negli stessi artisti che la suonano. Il proposito di Daltrey (anche qui superbo) sarebbe quello di entrare in sintonia con la sua stessa melodia e, forse, con la donna che viene citata verso la fine della canzone. L’introduzione del brano è, anche stavolta, scandita dal turnista Niky Hopkins. «[…] I’m singing this note ‘cause it fits in well / With the chords I’m playing […]» – «Sto cantando questa nota perché si sposa bene con gli accordi che sto suonando.» Anche in questo caso, l’alternanza tra i cori e la voce di Daltrey è davvero sublime, come la batteria di Moon, che assieme al pianoforte riproduce una melodia dal ritmo sempre più incalzante, specie sul finale. 

Going Mobile è la canzone più spensierata dell’album. Inizia anch’essa con un allegro arpeggio di chitarra ed è cantata dallo stesso Townshend. A chi non piacerebbe avere una casa mobile che ci permetterebbe di viaggiare in tutta comodità, senza vincoli di orario e obbedendo in via esclusiva alle nostre esigenze personali senza dover abbandonare il focolare domestico? Insomma, sarebbe davvero incredibile se potessimo “teletrasportarci” in un determinato posto senza dover affrontare l’astrusa questione di dover affittare o acquistare un altro appartamento a causa di trasferimenti improvvisi o quant’altro e, in definitiva, “portarsi appresso” la nostra umile casetta… se soltanto fosse dotata di ruote, ovvio! Townshend stesso ne aveva acquistata una poco prima di registrare questa canzone, sostenendo (peraltro giustamente!): Le persone hanno questa brama di vita, di avventura e di colore. La melodia scandita da batteria e chitarra, come l’utilizzo del sintetizzatore, rendono la traccia molto godibile (merito anche della voce del frontman, che qua si è veramente dato alla pazza gioia!).

Cosa ci sarà mai dietro un bel paio di occhi blu? Forse la risposta possiamo trovarla in Behind Blue Eyes, una delle ballate più celebri e romantiche della storia del rock. La chitarra ammaliatrice di Towshend, assieme alla voce di Daltrey (accompagnata da sublimi cori) sono la combinazione perfetta per farci innamorare di una canzone senza tempo. In una parola: intramontabile. La dolce malinconia che si respira tra le note viene, d’improvviso, rimpiazzata da un “canto di rivolta”, più grezzo e meno “pulito”. La canzone è nata in circostanze particolari. A quanto pare, a seguito di un concerto a Denver (1970), Townshend “dovette fare i conti” con la tentazione di abbandonarsi alla passione con una groupie o tornare in albergo. Scelse la seconda opzione (dedito com’era a Meher Baba e ai suoi insegnamenti), ma evidentemente l’episodio lo colpì abbastanza tanto da scriverci su una canzone. Il protagonista è Jumbo – definito come “il cattivo” della situazione – che si lamenta di come il mondo sia pieno di seduzioni che dal bene ci portano al male, alla perdizione e quant’altro. La parola “blue” può essere anche abbinata alla tristezza e, in questo caso specifico, agli occhi tristi di un uomo… triste, appunto. «[…] No one know what it’s like / To be the bad man / To be the sad man / Behind blue eyes / […]» – «Nessuno sa come ci si sente / A essere l’uomo cattivo / A essere l’uomo triste / Dietro gli occhi azzurri.»


Won’t Get Fooled Again: ultima traccia di un album stupendo, finale dignitoso per una band che ha ormai lasciato il segno (e che di certo non si fermerà!). Anche questa canzone è stata utilizzata nella serie CSI: Miami e in moltissime campagne di natura politica. Townshend, infatti, si propone di denunciare l’abuso di potere e gli effetti che un qualsiasi tipo di rivoluzione può provocare a livello individuale e sociale. «[…] And the world looks just the same / And history ain’t changed / ‘Cause the banners, they all flown in the last war […]» – «E il mondo sembra sempre lo stesso / E la storia non è cambiata / Perché le bandiere sventoleranno durante la prossima guerra.» Purtroppo, anche alla luce di quanto sta accadendo attualmente, non c’è nulla di più calzante di queste parole. Sembra proprio che all’essere umano piaccia autodistruggersi. E, perlomeno in questo senso, possiamo affermare che purtroppo “la canzone peggiore”, ovvero la guerra, non è mai finita. Una cosa è certa: la violenza non è mai una risposta, per quanto in molti si ostinino a non capirlo. Anche in questo testo di Townshend, con buona pace degli altri membri della band, non mancano riferimenti al guru spirituale Meher Baba. Il finale di questa maestosa traccia si avvale di organo sintetizzato e batteria, assieme  al fantastico urlo liberatorio di Daltrey, il cui messaggio (analogo al precedente ma, questa volta, intriso di quel furore necessario a non mollare la presa!) è uno solo: The Song Is Not Over! – alias… vietato perdere la speranza!

Pubblicato da Eleonora

Sono una ragazza curiosa dalle molte passioni: amo scrivere, leggere (ovviamente), disegnare fumetti, ascoltare musica - specialmente appartenente al filone del rock progressivo - e ballare, soprattutto i Latino-Americani. Mi piacerebbe molto imparare a suonare il pianoforte, nonché trovare un partner ballerino con cui condividere la mia grande passione per la danza... Lo so, forse chiedo troppo!

6 Risposte a “The Song Is Over?”

    1. Concordo! E devo dire che Baba O’Riley mi sta conquistando sempre di più, è davvero un gran canzone!

      Ps (off topic): ultimamente sto ascoltando per bene anche i Soft Machine; qualche giorno fa ho finalmente conosciuto “Third”, devo dire che è un album bello tosto (e di sicuro ascoltarlo una sola volta non è sufficiente per apprezzarne la complessa bellezza!); non avevo neanche idea che il gruppo fosse in realtà più devoto al jazz e alla fusion che non al rock progressive!

  1. I SM hanno effettivamente iniziato come band progressive (della scuola di Canterbury), ma poi sono virati al jazz rock. In effetti è stato proprio Third il disco del passaggio. Delle quattro suite del disco secondo me la migliore è Out-Bloody Rageous (l’ultima).

    1. Ecco, misa che questa svolta musicale non è tanto piaciuta a Wyatt, dato che dopo “Fourth” ha preferito abbandonare la band e continuare da solista (dovrò ascoltare anche i suoi lavori, sono molto curiosa e dicono che Rock Bottom sia straordinario).

      E quindi di “Third” ti piace la suite più malinconica, se non erro… devo dire che, in effetti, ha colpito molto anche me!

  2. Sì, mi piace anche Slighly all the Time, ma l’ultima secondo me è la migliore.
    Sì, penso sia per la svolta jazz che Wyatt ha abbandonato i SO. Rock Bottom contiene quella che forse è la sua miglior canzone, ovvero Sea Song.

    1. Ho ascoltato Sea Song ed effettivamente è davvero particolare! Certo, pensare anche al fatto che già ai tempi di questo album la vita di Wyatt fosse del tutto cambiata a causa del grave incidente subito la rende ancora più straordinaria, nella sua malinconica bellezza!

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