Scrittura, questa sconosciuta…

Chi mi segue da un po’, ormai conoscerà la mia più grande passione. Sono una ragazza che ama scrivere e ama farlo bene ma, purtroppo, non sempre mi riesce, anzi. La mia inesperienza mi porta, spesso e volentieri, a commettere degli errori anche grossolani, ma il mio entusiasmo di scrivere scorre nelle mie vene come un fiume in piena, portandomi persino a percorrere delle ‘strade’ che nella realtà non oserei mai contemplare, nonché a dichiarare quanto non avrei il coraggio di dire con facilità in pubblico. In poche parole, per me scrivere è come respirare.

Sono conscia, però, del fatto che purtroppo non potrò sempre conoscere il parere altrui riguardo la mia scrittura, dato che comunque quei pochi racconti che mi capita di inviare a qualche concorso letterario non saranno mai apertamente valutati dalle persone competenti che si apprestano ad analizzarli.

Non potrò conoscere la loro opinione, se il mio scritto è inverosimile, banale e dunque poco interessante, pieno zeppo di errori anche sciocchi che magari avrei potuto evitare. Credo che magari, tra qualche anno, quando leggerò i miei vecchi racconti, potrò persino riderci sopra e magari pensare che siano stati frutto di una mente troppo ingenua e ancora troppo acerba. Sbagliando s’impara, è vero, ma come potrò mai comprendere di aver sbagliato se nei concorsi letterari, com’è giusto che sia, vengono premiati soltanto i migliori?

Ritengo giustissimo che i giurati non esprimano la loro opinione su qualsiasi elaborato possa capitar loro a tiro, perché posso ben immaginare la fatica nel dover esprimere, per ogni singola persona, un giudizio severo e imparziale. Ecco, purtroppo, questa è una delle pecche dei concorsi letterari. Il tuo racconto “potrebbe anche far schifo”, per così dire, e tu magari non lo sai! Nel senso che magari contiene innumerevoli imprecisioni… Forse la tua idea è buona, ma non potrai sapere come migliorarla, finché non ci si confronta con uno scrittore vero.

Ultimamente, tanto per dirvene una, ho inviato a un blogger che ha scritto libri – nonché finora mio unico fido commentatore di molti post del mio sito, che ringrazio ancora! – Marco Lazzara, uno scritto che avevo redatto mesi fa e di cui andavo abbastanza fiera. Ebbene, grazie a lui, ho avuto modo di scoprire che il mio racconto conteneva (e contiene tuttora!) delle pecche, delle imprecisioni e degli errori a dir poco grossolani… Non tanto errori ortografici, quanto errori concettuali, errori di sostanza, errori strutturali… Lo ammetto, un po’ mi ha sconfortato sapere che non ero stata poi così brava nel redigere il suddetto racconto, che ora avrei persino l’opportunità di migliorare, se non modificare del tutto (impresa ardua…)!

Diciamo che è sempre difficile catalogare tutte le emozioni che si provano quando una persona competente ci mette di fronte a dei difetti concernenti una realtà di cui siamo tremendamente appassionati (e di cui però conosciamo ancora molto poco), perché in un certo qual modo ci si sente coinvolti all’estremo. Non so se sono riuscita a spiegarmi: sarebbe un po’ come se qualcuno amasse con tutto se stesso il proprio mestiere ma, nonostante questo, non riesca comunque a farlo nel modo in cui vorrebbe, o magari pensa di averlo fatto quantomeno decentemente e qualcuno gli fa notare il contrario. Con questo, non voglio dire che ciò non sia giusto, anzi! Ci sarà sempre qualcuno che sarà migliore di te e che avrà maggiore esperienza/intuito, ma questo dovrebbe motivarci, non distruggerci! Già, è più facile a dirsi che a farsi, ma bisognerebbe sempre cercare di capire i propri errori. 

Il problema principale è che il più delle volte, per rendercene conto, bisogna buttarsi, avere il coraggio di scoprire come possiamo migliorarci, anche “rompendo le scatole” ad altri, per così dire! E mettersi in discussione credo sia importante, in ogni ambito. La me studentessa lo fa pure troppo, quindi lasciamo perdere… La me “pseudo-scrittrice/blogger”, invece, ha ben poche opportunità di buttarsi e di comprendere ciò che non va… In fondo, scrivono un po’ tutti!

Purtroppo, io non scrivo soltanto per “gioco”, ma in fin dei conti non mi sono mai professata una grande esperta in materia e mai lo farò. Sono ben lungi dal volermi prendere troppo sul serio, la vita è già troppo “seria” di suo! Però è pur vero che, questa volta, non ho una professoressa di italiano a portata di mano, un editor o qualunque altro esperto che possa dirmi con estrema franchezza se ciò che mi capita di scrivere possa essere giudicato buono.

A questo punto, mi sa che dovrò diventare anche io un’insegnante – ciò non mi esulerebbe da giudizi, anzi! – e non escludo che un giorno possa succedere. Certo, diventarlo non ti rende automaticamente bravo/a, in fondo, pure i professori sbagliano e hanno bisogno di confrontarsi gli uni con gli altri e, come detto, anche loro potrebbero aver bisogno di sinceri giudizi. Perché sto “prendendo di mira” gli insegnanti? Non saprei, forse perché in cuor mio li ho sempre ammirati e, lo ammetto, anche un po’ invidiati. La loro sicurezza, la loro esperienza, il loro carisma… Insomma, sapete com’è.

E ammetto pure che quelle poche volte che mi è capitato di aiutare qualcuno a capire un qualcosa (per lo più al liceo) mi sentivo molto appagata, in qualche modo utile. Sarà pure che quasi tutti gli insegnanti che ho avuto finora sono stati il meglio cui potessi aspirare e questo mi ha sempre spinto, in qualche modo, a voler superare a tutti i costi i miei limiti nonché, in un certo senso, a venerarli in gran segreto. Adesso, però, la prospettiva è sicuramente diversa.

Molto spesso ci si sente “soli” davanti a una montagna di libri che aspettano “soltanto” di essere capiti e digeriti quasi in ogni sua parte. Non c’è nessuno che ti possa dire che i tuoi sforzi saranno ripagati, sei soltanto tu a dovertelo ripetere ogni singolo giorno. Non c’è quel “conforto” che, per così dire, poteva esserci nelle scuole superiori, quella sorta di sicurezza che gli insegnanti riuscivano ad infonderti… All’università, il timone ce lo hai in mano tu e molto spesso non sai “dove girarti”, malgrado la bravura di alcuni di loro. Chissà, magari sto “prendendo di mira” i professori perché – famiglia a parte – sono stati gli unici a insegnarmi davvero qualcosa che non fossero soltanto semplici nozioni e al mio primo semestre del primo anno di università, devo dire di aver goduto della stessa fortuna.

E a dirla tutta, nella mia famiglia sono stati quasi tutti insegnanti: mio nonno e i suoi fratelli, alcuni/e miei/mie zii/zie, che lo sono tuttora… insomma, sono sempre stata circondata da professori, dentro e fuori la scuola; per cui forse è per questo che questa figura professionale è a me tanto cara e la prendo spesso come esempio.

Comunque, tornando al tema principale di questo post (come sempre la nostalgia dei tempi andati è più forte di tutto!), mi auguro che magari, con l’esperienza, riuscirò pian piano a scoprire altri miei errori, altri miei difetti riguardo la mia scrittura che, come detto, non ne è affatto esente. Insomma, dovrei imparare a guardare ai miei scritti con maggior “freddezza”, con più spirito critico, “scavandoci dentro”.

Una delle chiavi per imparare a scrivere meglio è, ovviamente, leggere, leggere e ancora leggere. E a tal proposito, in questi giorni ho un po’ riscoperto il piacere della lettura, un’emozione che avevo dimenticato e che spero di comunque di portare avanti. Molte volte, si ha bisogno di una “boccata d’aria fresca”, che sia il mio blog, che siano altri blog, che sia la lettura, la scrittura o quant’altro io possa compiere in questi giorni di stop. Adesso, a seguito di questo mio sfogo/riflessione, appongo qui un altro dei miei piccoli racconti dal seguente titolo: Presenze invisibili. Forse a qualcuno potrà apparire un po’ melenso e sdolcinato, ma di certo averlo scritto in un momento di “sensibilità profonda” ne ha condizionato “le sorti” e, dunque, il contenuto. Insomma… Ascoltare Linsday di Anthony Phillips mentre mi apprestavo a redigerlo ha sortito i suoi effetti. Il tema del concorso era il seguente: Appuntamento alla stazione. Nel breve racconto che ho redatto io non sono presenti dialoghi, bensì molte riflessioni (chissà, magari questo scritto potrebbe pure essere una specie di “soliloquio”). Potrei azzardarmi a dedicarlo a quelle persone che non ci sono più e che comunque resteranno per sempre nel mio cuore.

 

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Nella meravigliosa esistenza di ciascun individuo, vige sempre l’ammirabile certezza di doversi prima o poi scontrare con delle leggi universali più o meno importanti che caratterizzano il nostro approcciarsi alla vita ma che, a quanto pare, non funzionano per tutti. Moltissimi individui, soprattutto di sesso maschile, non avevano fatto altro che ripetermelo. Mi avevano sempre prospettato dinanzi una realtà della quale io non ero mai stato testimone, benché loro non credessero affatto alle mie parole.

Mi avevano sempre detto – o meglio, avvertito – che un bel giorno “sarebbe arrivata anche per me” e che prima o poi, nella prosecuzione della vita di coppia con Lindsay, avrei scoperto quella sorta di verità universale associata al contesto amoroso; una legge della natura cui nessuno poteva scampare. Secondo la suddetta teoria – sostenuta da “valide argomentazioni” concernenti la vita privata dei fervidi sostenitori della stessa – con il passare degli anni sarebbe stato davvero impossibile guardare una donna con la stessa identica emozione con la quale la si osserva per la prima volta.

Che come affermava il buon vecchio Aristotele, il tempo è la misura del cambiamento e che questo famigerato cambiamento coinvolge a pieno titolo le nostre abitudini, lenisce e modifica le nostre certezze, mitiga l’intensità di un sentimento che si prova nei confronti di quelle persone che per anni sono stati la nostra ancora, il nostro passato, il nostro presente, il nostro tutto.

E per me, quella donna “vestita di sole” che in questo momento si trova così vicino, eppure così lontana da me, rappresentava proprio quel tutto, quel porto sicuro venuto alla luce una gelida notte d’inverno di venticinque anni fa, nella vecchia stazione di Princeton Town, su quella grigia banchina sulla quale adesso ella siede con indiscussa eleganza, scrutando con meticolosa insistenza uno scenario tutt’altro che romantico e paradisiaco.

Ciononostante, al di sopra di quei binari arrugginiti, l’esistenza di milioni e milioni di individui continuava a fluire in un eterno ed incessante divenire, in una danza dalla coreografia lineare e diritta creata ad arte dal medesimo moto giornaliero di quei treni, tuttavia sempre marcata da una velocità differente a seconda degli occhi che estasiati la guardano, un ritmo quasi altalenante che molto spesso scandisce le nostre vite, alla costante ricerca di un obiettivo che diverrà certezza soltanto una volta che lo si è raggiunto.

Un discreto – quanto delicato – equilibrio composto di partenze e ritorni, sorrisi radiosi, spenti, conoscenze fortuite che lasciano il segno, nonché addii definitivi che spezzano sì il cuore, ma non certo la vita.

Incredibilmente, quest’ultima casistica che ai miei occhi appariva improbabile sebbene in un certo qual modo possibile, era proprio quanto accaduto tra me e quella donna, la mia Lindsay. Sapete, quasi non posso credere di trovarmi ancora qui, a pochi passi da lei, nel luogo del nostro primo incontro, nella stazione che da oggi in poi sancirà la misura di un ennesimo cambiamento di prospettiva, di quella realtà vissuta all’unisono e che il destino ha diviso, ma non distrutto.

In effetti, abbiamo entrambi tenuto fede alla promessa di rivederci qui, di fianco a quei cartelli che garantiscono il raggiungimento di luoghi più o meno lontani e alle spalle di quei muri sbiaditi e in parte anneriti dal fumo dei treni e che tuttora sanciscono quella che in molti definirebbero la veneranda età di un sentimento ancora vivo e mai scalfito. Un sentimento resistente persino alla complessa veridicità scientifica decantata dalla “freccia del tempo”, all’inevitabile trasformazione che da una determinata situazione iniziale di cui conosciamo le singole caratteristiche ci condurrà a una condizione finale della quale non ci è invece dato di sapere alcunché; poiché così è l’ignoto, da sempre oggetto di fascino e spavento, di speranze e di illusioni…

L’ignoto, che racchiude in sé quell’esistenza che in qualsiasi momento potrebbe giungere alla deriva per cause naturali o artificiali che a prescindere dal caso specifico includono sempre un qualcosa di cabalistico che nemmeno la scienza può spiegare davvero. Ecco, è proprio questo il reale mistero; il mistero della fede. Perché la nostra è una vita in transito, una vita che per certi versi somiglia a quei treni che alle volte giungono in stazione e attraversano i binari senza fermarsi, incuranti della presenza di quegli individui che attendono con ansia di salirvi.

E io, Arthur Moore, so benissimo di non potervi più montare con la mia Lindsay, sebbene in questo preciso momento il semaforo verde abbia dato il via libera alla partenza di un altro treno e conseguentemente al mio definitivo avvicinamento a quella figura meravigliosa dagli occhi azzurri la cui profondità abissale mi lascia tuttora senza fiato, dinanzi a quello sguardo rappresentante un mare estremamente calmo, alle volte in tempesta. E adesso eccomi qui, a un passo da lei, invisibile eppure presente, ancora in preda all’infondata convinzione che ella possa vedermi comunque.

Ormai le sono davvero vicino, non manca che un solo centimetro di distanza alla silente contemplazione di quel volto dai lineamenti delicati cui sempre solevo perdermi. Proprio adesso le sono di fronte; mi sono chinato in ginocchio per osservarla ancora meglio, dritto negli occhi, con un sorriso che manifesta profonda ammirazione, accompagnato da un’altrettanta dose d’amore. Eppure lei non mi dice nulla, nemmeno una semplice parola, non un cenno, non un sorriso. Niente di niente… Continua a osservare la stazione sbattendo a malapena le palpebre, come fosse in preda a un’estasi mistica.

È vero, in effetti Lindsay non sa che ci siamo dati di nuovo appuntamento, ella non potrà davvero sincerarsi della mia silenziosa presenza. Ma in fin dei conti, anche se sono ormai fatto di puro spirito e sono membro effettivo del Paradiso insieme ad altri angeli, posso sempre prodigarmi nel dimostrarle che ci sarò comunque, seppure in modo diverso. Forse, posso ancora sperare che lei riconosca il profumo della mia invisibile esistenza e che possa finalmente strapparle un leggero sorriso. Quel sorriso che, incredibilmente, sembra d’un tratto concretizzarsi dietro quegli occhi chiari e splendenti di una malinconica – quanto sfolgorante – luce.

Pubblicato da Eleonora

Sono una ragazza curiosa dalle molte passioni: amo scrivere, leggere (ovviamente), disegnare fumetti, ascoltare musica - specialmente appartenente al filone del rock progressivo - e ballare, soprattutto i Latino-Americani. Mi piacerebbe molto imparare a suonare il pianoforte, nonché trovare un partner ballerino con cui condividere la mia grande passione per la danza... Lo so, forse chiedo troppo!

4 Risposte a “Scrittura, questa sconosciuta…”

  1. 8 anni fa ho partecipato a un progetto nato da un concorso letterario. L’editing che ho fatto con te via mail, fu fatto con me da un “famoso” autore. La differenza è stata il modo. Il racconto lui me l’ha smontato completamente, e questo era giusto: in fondo funzionava, ma non era un granché (avevo scritto cose decisamente migliori, ma per il concorso avevo solo quello). Lui però lo fece con una certa soddisfatta malignità, e questo non mi fece piacere. Insomma, alla fine invece di migliorare il racconto, ne dovetti scrivere uno completamente diverso, che non è lo scopo dell’editing. Uno dei punti che criticò maggiormente era il finale a effetto, che secondo lui non andava mai utilizzato. Solo che nell’antologia che poi venne fatta ce n’erano ben due, di cui uno editato proprio da lui con un’altra ragazza…

    Quanto al racconto del post, mi è piaciuta l’idea, il finale è semplice ma azzeccato. Ci sarebbero alcune cose da rivedere, ma è di sicuro migliore dell’altro che ho esaminato.

    1. L’episodio che mi hai raccontato mi sta vagamente ricordando un racconto – che lessi mesi fa – dove un aspirante scrittore è alle prese con un editor davvero troppo perfido (sì, il racconto di cui parlo è proprio il tuo è l’ho trovato vagando per internet, insieme ad altri tre o quattro inseriti in quella piccola raccolta! 😛 ). Concordo sul fatto che purtroppo in molti si divertono, con sfacciata cattiveria e grande arroganza, a denigrare le tue idee o qualsiasi altra cosa – e questo purtroppo accade in tutti gli ambiti – e credo che la ragione principale di ciò sia, in primis, il fatto di peccare di mancanza di umiltà.
      Quanto al mio racconto, sono contenta di aver commesso meno “casini” rispetto all’altro che ti ho inviato giorni fa. Il finale, in effetti, mi sembrava molto carino, seppur semplice. Spero di migliorare sempre di più in futuro, nonché di “azzeccare” altri finali! 🙂

  2. Immagino avrai intuito che per quel racconto avevo preso spunto da quell’episodio…
    Per carità, quasi tutte le obiezioni che mi fece quell’autore erano giuste, e comunque io da quell’episodio ho imparato molto, ma non si era comportato bene con me.

    1. Molte volte – purtroppo – si impara di più dalle esperienze negative, che da quelle positive!
      Però, come altrettanto spesso si dice, “prendi e porta a casa” e prima o poi penso che si verrà ripagati degli sforzi fatti, magari prendendosi pure delle piccole rivincite!

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